di Giacomo PierozziGiano Studio Net, Forlì

Si è tentato di mettere a fuoco, nel mio precedente contributo, i fattori in base ai quali il legislatore abbia ridefinito la normativa pre-esistente nell’ottica di un suo maggiore utilizzo ed applicazione pratica. Uno di questi fattori, come si è detto, è rinvenibile nel fatto di avere “riposizionato” gli strumenti di welfare da “liberalità datoriale” ad elementi “sinallagmatici” della prestazione; in altre parole trasformando il welfare da mera “regalia” a strumento di politica salariale.

Per poter addivenire a tale scopo era necessario che il welfare dovesse essere in qualche modo disciplinato in termini vincolanti e cogenti per il datore di lavoro. Le forme con le quali il welfare possa pertanto essere aziendalmente introdotto, portandosi appresso tutta la gamma dei vantaggi fiscali, sono sostanzialmente due.

  • La prima possibilità è quella di disciplinare il welfare attraverso un regolamento interno.
  • La seconda è quella di introdurlo attraverso un accordo sindacale.

Ci soffermiamo sulla prima ipotesi rimandando ad un prossimo contributo l’analisi della seconda. Trattasi del caso in cui il datore di lavoro di fatto si “autodisciplina”, dotandosi di regole criteri e condizioni che non potrebbe astrattamente disattendere nell’arco di durata del regolamento medesimo. Nella ipotesi di regolamento , il datore non ha dinnanzi una “controparte” (come nel caso dell’accordo) con la quale definire le regole; tuttavia – per non rischiare di vanificare parte della dote fiscale – c’è comunque la necessità che risulti vincolante l’impegno nei confronti dei lavoratori destinatari del piano di welfare. Il regolamento può infatti intendersi equiparabile ad un vero e proprio contratto idoneo a determinare un obbligo negoziale fra l’azienda e la categoria di lavoratori destinatari.

Nell’ottica di una maggiore tenuta giuridico fiscale sarei dunque per suggerire prudenzialmente un paio di accorgimenti pratici:

in primis di introdurre il regolamento mediante delibera del C.D.A. , formalità che può dare all’atto un epoca certa della sua attivazione; diversamente dall’accordo sindacale , il regolamento non è infatti soggetto ad obbligo di deposito
ex art. 14 D.Lgs 151/2015 a differenza degli accordi sindacali.

Eviterei di inserire clausole cd “potestative” (vale a dire discrezionali ) del tipo: “Il presente regolamento ha validità dal…al…: la direzione tuttavia si riserva di revocare/disdettare in qualsiasi momento il presente regolamento qualora a suo insindacabile giudizio ritenga che non ci siano più le condizioni per …” Una siffatta clausola pur non compromettendo l’esenzione fiscale in capo al dipendente, né la forbice contributiva a beneficio dell’azienda, rischierebbe tuttavia di inficiarne la deducibilità dal reddito d’impresa. Un regolamento che preveda infatti una clausola potestativa del tipo di cui sopra, consentendo al datore una libera recedibilità dall’impegno preso, rischierebbe di essere considerato dalla Agenzia delle Entrate alla stregua di una liberalità o “offerta volontaria” e , come tale, non deducibile integralmente ma solo nella limitata percentuale del 5 per mille dal reddito di impresa come previsto dall’art. 100 del TUIR .

Diversa invece la casistica nella quale il regolamento subordini la determinazione del plafond da destinare a welfare in funzione ad esempio di un risultato di bilancio. In questa ipotesi, la circostanza che, in un determinato anno, il plafond destinabile a welfare non venga distribuito ovvero venga assegnato in misura ridotta non sarebbe dipendente da una decisione discrezionale ma dal verificarsi di una situazione antecedentemente individuata nel regolamento stesso quale condizione di erogabilità.
Detta clausola pertanto non inficerebbe la integrale deducibilità delle somme destinate a welfare.