Il “JOGGING” ai tempi del Coronavirus fra norme nazionali, ordinanze regionali, e presunti vizi di legittimità costituzionale
Di Giacomo Pierozzi, “Giano Studio Net”
Vista l’eccezionalità del momento che stiamo vivendo, voglio fare oggi una “invasione di campo” focalizzandomi su aspetti che esulano dai temi del lavoro. Dovendo in questi giorni concentrare l’attenzione sui provvedimenti a tutela della aziende e del
mondo produttivo, l’occhio è caduto inevitabilmente anche sugli altri aspetti legati all’emergenza COVID , con riguardo alla vita delle persone (che in qualche modo ha a che fare con il welfare in senso lato) ed alle varie disposizioni che oggi stanno limitando i movimenti e la circolazione delle stesse, ivi compreso il tanto attenzionato “jogging”.
La sollecitazione proveniente dalla “vox populi” al riguardo è molto forte, essendo un tema molto dibattuto sui “social” da parte dei cittadini che si chiedono e si confrontano animatamente su quanto siano legittimi tali provvedimenti e in quale misura siano essi effettivamente rispondenti alle finalità del contenimento del virus. Mi astengo naturalmente e, (come si suole dire oggi), “prendo le distanze” da valutazioni di tipo sanitario o politico , concentrandomi solamente sugli aspetti meramente giuridici e sul processo legislativo con il quale le limitazioni sono state rese applicative.
L’urgenza e quindi la rapidità con la quale i provvedimenti dovevano essere adottati, rischia mio avviso di confliggere in qualche caso con la loro legittimità sia sotto il profilo giuridico che dal punto di vista del processo legislativo, con l’effetto di una prevedibile ingente mole di contenzioso amministrativo, che dalla loro applicazione potrebbe derivarne.
Per rimanere in tema di welfare prendiamo quindi ,come oggetto di osservazione, il tanto vituperato “runner” e le limitazioni normative a cui è stata sottoposta l’attività di jogging. Cercherò di rendere per quanto possibile comprensibile questa mia ricostruzione.
Tralasciando l’esame dei provvedimenti della prima decade di marzo, prendiamo le mosse dal D.L 25 marzo 2020 n.19.
In sintesi, esso stabilisce che, per contenere e contrastare i rischi sanitari da C0VID 19, possono essere adottati uno o più DPCM in attuazione di una serie di misure elencate all’art. 1 comma 2. Fra tali misure si legge alla lettera “n”: “Limitazione o sospensione delle attività ludiche, ricreative, sportive e motorie svolte all’aperto o in luoghi aperti al pubblico”.
Un passaggio importante è poi rinvenibile all’art. 3 comma 1, dove si dice che, nelle more dei tempi di emanazione dei DPCM , le Regioni con efficacia limitata e fino al momento di detta emanazione possono introdurre misure ulteriormente restrittive.
Viene dunque emanato il DPCM 10 aprile 2020 che, in attuazione della lettera “n” summenzionata stabilisce che “(..) è consentito svolgere individualmente attività motoria in prossimità della propria abitazione, purché comunque nel rispetto della distanza di almeno un metro da ogni altra persona”
Si registra tuttavia un passaggio di dubbia legittimità all’art. 8 e precisamente al comma 3 delle Disposizioni finali che recita: “Si continuano ad applicare le misure più restrittive adottate dalle Regioni relativamente a specifiche aree del territorio regionale”
La domanda sorge spontanea: può un D.P.C.M. – emanato al solo fine di dare attuazione ad Decreto Legge, modificare lo stesso Decreto Legge di cui il D.P.C.M. ne costituisce l’attuazione?
A mio avviso siamo quanto meno di fronte ad un vizio procedurale; alla stessa stregua di un Decreto Legislativo che andasse a modificare il perimetro della relativa Legge Delega. E’ esattamente ciò che è stato fatto nelle Disposizioni finali: stabilendo l’ultrattività dei provvedimenti regionali, il DPCM ha palesemente modificato l’art. 3 del Decreto Legge che stabiliva l’efficacia temporanea e suppletiva dei provvedimenti delle Regioni – che sarebbero dovuti automaticamente decadere per le materie poi rese attuative del DPCM.
Nel frattempo cosa succede infatti in Regione Emilia Romagna?
In data antecedente al D.P.C.M. viene emanata l’Ordinanza del 4 aprile che , ai punti 2 e 3 vieta gli spostamenti stabilendo che, “(….) ove lo spostamento a piedi sia dovuto a ragioni di salute o per esigenze fisiologiche dell’animale di compagnia si è obbligati a restare in prossimità della abitazione”
Tale limitazione tuttavia – anziché, come previsto dal D.L. 19/2020 esaurire la sua funzione suppletiva e decadere alla data del 10 aprile con l’emanazione del DPCM, viene clamorosamente riproposta con la successiva ordinanza del 11 aprile proprio in forza di quella Disposizioni finali poste sul DPCM a mio giudizio inammissibili, in quanto modificative del D.L.
La regione Emilia Romagna si è tuttavia spinta anche oltre, riproponendo la limitazione in parola in modo generalizzato sull’intero territorio regionale, quando invece le Disposizioni finali disponevano una ultrattività in relazione a specifiche aree del territorio regionale. Tutto ciò ha creato disorientamento anche al cittadino particolarmente preparato ed informato a cui rimane il dubbio se, per fare due passi vicino a casa, occorra o meno una motivazione di salute o un cane al seguito.
Infatti, ad oggi, per la norma statale l’attività motoria vicino a casa potrebbe essere fatta in modo incondizionato; ma per la norma regionale – che in modo dubbio sopravvive – occorre che contestualmente sussisti una seconda condizione (comprovate ragioni di salute o soddisfacimento delle esigenze del proprio animale da compagnia). Come se non bastasse, a tale contrasto legislativo si aggiunge il presunto limite dei 200 mt quale ambito spaziale entro il quale ricondurre la nozione di “prossimità dalla abitazione”; precetto non rinvenibile in alcuna legge nè statale nè regionale ma emerso in un parere dato dal Capo di Gabinetto del Ministero che si era espresso in tal senso a fronte di un quesito. Quindi è inutile sottolineare come, contravvenzioni comminate a 250 metri da casa, ma comunque all’interno di un quartiere /agglomerato urbano abbastanza circoscritto, possano poi essere agevolmente impugnabili innanzi al Giudice di Pace.
Dal prossimo 4 maggio 2020, per effetto del nuovo D.P.C.M. 26 aprile 2020 che sancisce l’inizio della cosiddetta Fase 2, decade (per la legislazione statale) il limite di “prossimità alla abitazione”, e le questioni sopra evidenziate potrebbero ritenersi forse superate; ma certamente potrebbero presentarsene altre sempre legate al sistema delle legislazioni concorrenti che continua ad essere perpetuato.
A tal proposito infatti anche il DPCM appena emanato reca la medesima previsione all’interno del disposizioni finali che fa salva l’eventuale legislazione regionale più restrittiva; occorrerà quindi prestare molta attenzione a ciò che la Regione legifererà in materia (o non legifererà confermando la validità della ordinanza vigente). Lungi dal voler avallare forme di disobbedienza civile e rinnovando l’invito a comportamenti responsabili, come può tuttavia il cittadino colpito da provvedimento sanzionatorio tutelarsi da possibili decisioni “border line” comminate in modo troppo zelante ed eccessivo, in un contesto di forte incertezza applicativa?
Certamente il cittadino potrà tutelarsi in sede di ricorso amministrativo proprio facendo leva sui vizi procedurali come sopra evidenziati o contestando le misure frutto di mera interpretazione non rinvenibili nella norma di legge. Sullo sfondo della vicenda si colloca infine un tema più ampio: la presunta illegittimità costituzionale dei provvedimenti in parola con riguardo all’art. 13 Cost. come alcune giuristi hanno ben evidenziato.
Se si dovesse accertare che le misure adottate contraddicono i principi legati alla libertà della persona, i provvedimenti presi attraverso Decreti Legge, D.P.CM od Ordinanza Regionali si rivelerebbero illegittimi poiché sarebbe stato compito esclusivo della iniziativa parlamentare modificare o derogare ai principi costituzionali. Il legislatore è sempre stato conscio di questo rischio tant’è che ha sempre formulato le norme in termini di “espresso divieto” solo là dove era sicuro della loro tenuta, mentre sul tema delle libertà personali ha sempre utilizzato allocuzioni più blande quali “evitare” o “non consentire ” per poi
delegare le restrizioni al livello regionale.
Infine – della serie “a pensare male a volte ci si prende” – usciamo anche dall’equivoco dell’autocertificazione, continuamente caldeggiata dal Ministero sulla base degli standard pre-confezionati pur non essendo essa prevista da alcuno dei provvedimenti di legge. Rammentiamoci che essa nasce quale strumento di autotutela del cittadino e non può essere un
modo per mettere al riparo le P.A. con dichiarazioni di consapevolezza e conoscenza delle norme e delle sanzioni ad esso collegate, che potrebbero finire per limitare o depotenziare l’eventuale azione amministrativa del cittadino avverso possibili provvedimenti sanzionatori.
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